Biografia Renato Carosone - Prima parte

La vita del Maestro Renato Carosone va raccontata in due fasi distinte, dal successo al ritiro e dal suo ritorno in sala di registrazione con il produttore Sandrino Aquilani, e a seguire...

La prima parte vede Carosone bambino alle prime armi con il pianoforte e in una Napoli tra il folklore e la guerra, dall'ingaggio come direttore d'orchestra di una compagnia musicale per una tournée nella Libia colonizzata e un nord Africa tutto da scoprire. Qui le vicissitudini curiose e drammatiche, qui conosce la ballerina di nome Lita (Levidi Italia) quella che sarà la futura moglie, ma intanto gli dà un figlio, Pino (Giuseppe Carosone). La guerra viene a complicare le cose, Lita rientra in Italia, Renato resta in Africa come soldato, ma continua a suonare con la sua fisarmonica. Passa momenti difficili e rischia più volte di essere travolto dagli eventi. Intanto viene alla luce Pino che conoscerà il papà ancora lontano diversi mesi dopo.

Renato, finita la guerra rientra in Italia, l'avventura e l'esperienza africana come uomo e come musicista lo segnano e lo maturano.

Tornato alla sua Napoli, su richiesta di un piccolo locale forma il suo famoso Trio Carosone con Gegè Di Giacomo e Peter Van Wood. Scrive canzoni le prime canzoni con Nicola Salerno (Nisa), grazie all'incontro promosso dall'editore Franco Ricordi. Scriveranno canzoni di successo che porta Carosone a toccare i teatri più famosi del mondo.

Il secolo XIX compie vent’anni

Milano vara la sua prima fiera campionaria, l’Italia si trasforma, nascono nuovi partiti, prendono il via le prime gare automobilistiche, è l’inizio di un decennio destinato a rimanere indelebile nella storia di un popolo che cresce tra ineluttabili contraddizioni. E’ il decennio del delitto Matteotti, della scomparsa di Giacomo Puccini, cercano di farsi largo Ettore Petrolini e Raffaele Viviani. La scienza e il progresso avanzano; con Guglielmo Marconi, con la realizzazione delle prime dighe idroelettriche e le prime autostrade, sulle cicatrici della guerra si disputano le Olimpiadi di Anversa, lo sport italiano conquista 13 medaglie d’oro. Sono gli anni di Rodolfo Valentino, dell’ EIAR (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche), del ballo americano chiamato “Charleston”, le gambe vanno in primo piano, il sogno di tutti è una Fiat 509, Orsi è l’idolo del calcio in maglia bianconera, della Juventus. All’inizio e nel bel mezzo di tutto questo, nasce e vive la sua infanzia “Renato Carosone”.

E' li il 3 gennaio 1920. La mamma Carolina ed il papà Antonio non sospettavano certamente di aver messo al mondo l’uomo e l’artista che sarebbe diventato il simbolo della canzone napoletana in tutto il mondo. Attraverso la sua simpatia, il suo innato umorismo, la sua musica, ha fatto canticchiare, ballare, divertire, sognare, innamorare, gente di ogni paese. Cina compresa.

La sua infanzia è caratterizzata da una Napoli, fantastica, passionale, piena di risate e di poesia, dove tutto è ironia e commedia, ogni cosa al limite, tra il sogno e la realtà. La Napoli “dove ognuno vive in una inebriata dimenticanza di se” come ebbe a dire Goethe in occasione di un suo viaggio in Italia. In questo clima non tarda a manifestare la sua schietta passione per la musica ed in particolare il fascino che su di lui esercita il pianoforte; i genitori a fronte di ogni sacrificio lo assecondano e lo fanno studiare sotto la guida di autentici maestri come Orfeo Albanese, Vincenzo Romaniello, Celeste Capuana e Alberto Curci.

La madre scompare prematuramente e Renato, primo di tre fratelli, aiuta il padre a tirare avanti la famiglia adattandosi ad ogni tipo di lavoro. E’ proprio con il fratello Ottavio e la sorella Olga che forma il primo “trio” Carosone, per la gioia dei parenti, vicini e coetanei di quartiere. Gli anni passano e Renato diciassettenne parte per l’Africa, scritturato da una compagnia di arte varia, Renato con la mamma 13 in qualità di pianista e direttore d’orchestra. Il gruppo artistico di cui Carosone fa parte, termina la tournèe africana e rientra in Italia, meno Carosone, che rimane in Africa scritturato nuovamente da un’orchestra Jazz di Addis Abeba. E’ il 1937 e le esperienze musicali di Carosone da quel momento si susseguono una dopo l’altra, rivelando al giovane pianista aspetti completamente nuovi nell’arte di far musica.

Chiamato di leva, per la seconda guerra mondiale, viene inviato al fronte somalo-britannico. Occupata dopo un anno Addis Abeba, Carosone riprende il suo posto al pianoforte in una formazione Jazz in un club di Inglesi. Dirigerà in seguito piccole e grandi formazioni orchestrali per night, spettacoli di varietà, operette e veri e propri concerti per sola orchestra. E’ il 1946 e Carosone, a 26 anni, torna con una delle prime navi che ripartono dalla Somalia per l’Italia. I successi che già aveva nella ex colonia a nulla serviranno in Italia, poiché completamente sconosciuto.

Ricominciare da capo, era l’unica strada! Una scrittura dopo l’altra in piccole formazioni di orchestra da ballo, ed infine il “momento magico”. A “Renato Carosone”, nel 1949, gli viene espressamente richiesto di formare un “Trio” ed inaugurare un nuovo night a Napoli. Fa amicizia con un olandese dal nome Van Wood ed alle tre del mattino lo scrittura come cantante chitarrista. Mancava il terzo; l’incontro avviene su segnalazione del proprietario del Night che aveva incaricato Renato di formare il Trio. Dietro appuntamento l’occhialuto simpatico Gegè di Giaco- Renato da bambino 14 mo si presenta puntuale alle 16,30 all’Hotel Miramare di Napoli dove Carosone stava provando con Van Wood. Si viene a creare una situazione a dir poco comica, il batterista è senza batteria, dice che l’ha portata a cromare, Carosone e Van Wood contrariati cominciano a dubitare della validità di Gegè, che intuisce tutto e per fugare ogni dubbio improvvisa una batteria casalinga: una sedia di legno, un vassoio, tre bicchieri di diversa grandezza e tonalità, due pioli, un fischietto. Questa è la prima prova del Trio Carosone divenuto in breve tempo famoso e richiesto in ogni parte del mondo.

“Napoli paese d’ò sole, paese d’ò mare, paese addo’ tutt’è pparole so’ ddoce e so’ amare, so’ ssempre parole d’ammore” dice una nota canzone, ed in questo spirito i singoli componenti del “Trio Carosone” mietono successi ovunque approdino, grazie anche alla spiccata personalità e doti comunicative che ognuno di loro riesce ad esternare. Quando Van Wood si staccherà dal gruppo per formare un nuovo complesso per tentare la propria fortuna, Renato spinge ancora di più l’acceleratore e non lo fermerà più nessuno. Sempre con il fedele Gegè a fianco, formò altri gruppi e fecero la loro apparizione sul mercato i primi long playing che contenevano le prime composizioni di Renato Carosone, “Maruzzella” aprì la strada del nuovo compositore, con un testo stupendo di Enzo Bonagura. Ebbe inizio, dopo il primo L.P., un’ascesa rapida e travolgente, “ Maruzzella”, “Torero”, “‘O Sarracino”, “Pianofortissimo”, “T’aspetto e nove”, “Pigliate n’a pastiglia”, “Caravan Petrol”, “‘O russo e ‘a rossa”, “Tu vuò fa’- Renato da bambino 15 l’americano”, “‘O mafiuso”. I testi firmati da un grande poeta della musica leggera italiana: Nisa (Nicola Salerno). “Torero” rimase in classifica per due settimane, al primo posto, nella Hit Parade Nord Americana. La stessa canzone fu tradotta in 12 lingue e di sole incisioni americane ne esistono 32.

Questo enorme successo aprì a Carosone la conquista del mercato Nord Americano, dopo Parigi, Londra, Madrid, Barcellona, Valencia, Monaco, Francoforte, Hannover, Berlino, Norimberga, Dusseldorf, Zurigo, Losanna, Nizza, Montecarlo, Atene, Lisbona, Behiruth, Palma de Majorca, Rio de Janeiro, Sao Paolo del Brasile, la popolare formazione riceve il premio più ambito: la famosa “Carnegie Hall” di New York. La tournèe americana ebbe inizio a Cuba, seguì a Caracas ed infine il debutto alla “Carnegie Hall” il 5 Gennaio 1957. Lo spettacolo fu un vero trionfo, non erano più gli emigranti di “lacreme napulitane” che sbarcavano in cerca di fortuna, i sei ragazzi di Carosone erano vestiti da Caraceni, con cravatte di Pucci e soprattutto sfoggiavano sorrisi smaglianti a sottolineare il nostro famoso e mai più ripetuto “miracolo economico”.

Le sue canzoni cominiciarono ad entrare in numerosi film, con Anna Magnani che canta “Maruzzella”, “Nella città l’inferno”, Sofia Loren che canta “Tu vuò fà l’americano”, in coppia con Clarke Gable in “La baia di Napoli”. In tanti film di Totò e nel famosissimo “Mein street” di Martin Scorzese, di cui la colonna sonora è interamente rivestita della musica di Carosone.

Con papà ed i fratelli Olga e Ottavio 16 Nel 1959, a 40 anni, Renato Carosone fiuta il vento che cambia, vede urlatori prima, e Beatles dopo, e decide di ritirarsi dall’attività, congedandosi dal pubblico durante una trasmissione televisiva allestita per l’occasione. L’annunciatrice era Emma Danieli, Carosone disse al pubblico: “preferisco ritirarmi ora sulla cresta dell’onda, che dopo assalito dal dubbio che la moda jè-jè e le nuove armate in blues jeans possano spazzare via tutto questo patrimonio accumulato in tanti anni di lavoro e di ansie”. Vista l’insistenza dell’opinione pubblica che non si accontenta o meglio non crede alla semplice spiegazione data nella sera del “ritiro”, Renato torna sull’argomento in una intervista pubblicata sul settimanale “Oggi” del 24 Settembre 1959. “Domenica scorsa, tornavo a casa come sempre e mi sentivo un altro, tutto intorno a me era diverso. Mancavano pochi minuti alla mezzanotte. Milano, mia seconda patria, era la solita Milano delle sere settembrine: le teste platinate delle passeggiatrici “lucevano” sotto i lampioni sul lato sinistro della strada, la mole bigia del palazzo di giustizia incombeva sulla mia destra. Ma è vero che il mondo, come dice King Vidor, “è uno specchio che dà a ognuno l’immagine del proprio volto”. Per me da quella sera tutto era cambiato. Mezz’ora prima alla televisione, davanti a milioni di spettatori, avevo detto addio a me stesso e ai cinque ragazzi del mio sestetto musicale. Insomma avevo sepolto il personaggio che avevo cominciato a fare di me fin dall’età di diciassette anni: il Renato Carosone cantante, pianista, direttore del suo Renato con il maestro Orfeo Albanese 17 complesso e autore di canzoni best-seller, il Renato Carosone che ogni sera, da ventidue anni, dico ventidue, si presentava al pubblico in un night club, in un teatro o in uno studio di posa della televisione, nell’Uruguay, nel Mozambico o a Milano. Quasi ogni sera, e per ventidue anni ed ora avevo finito per mio ordine e mia volontà, avevo deciso di diventare soltanto un “industriale” dei dischi, un organizzatore di una tribù del mondo della musica leggera. Deciso a non presentarmi più direttamente al pubblico. Avevo detto addio a tutti e non potevo tornare indietro, nemmeno se mi fossi pentito. Avevo lasciato l’automobile in garage e tornavo a casa a piedi: soltanto cento metri di quella Milano notturna davanti al palazzo di giustizia.

Possibile che tutto potesse finire così semplicemente? Ed ecco venire avanti una “1400” con l’antenna alzata, la radio accesa sul cruscotto. Dai finestrini aperti usciva la mia voce: Oh torero! e quelle degli strumenti dei miei ragazzi. “Te sì cacciato in capo ‘stu sombrero”, diceva dalla radio la mia voce, cantata distesa in quel pezzetto di Milano. Poi silenzio, l’auto si allontanava. Mi parve, non so, nello stesso tempo, un saluto e un augurio. Feci, senza volerlo, un saltello sull’asfalto, avevo le lacrime agli occhi. Mai una mia canzone mi era sembrata così viva. E’ proprio così, mi sono “ritirato” per questa unica ragione, per scendere dalla ribalta mentre sono ancora vivo, finché la mia faccia non ha ancora incominciato, o m’illudo, ad annoiare. Non si può, credetemi, cantare davanti alle telecamere sapendo che in quel momento qualcuno (un amico, forse) sta In casa con la sorella 18 spegnendo stizzito il televisore. Non volevo che questo mi accadesse mai. Finora ho avuto soltanto soddisfazioni. “Bene”, mi son detto, “Renà, è il momento di piantarla”. Dicevo giusto? Ho visto volti increduli attorno a me; volti commossi, ma scettici. Nessuno vuol darmi atto della saggezza che ho cercato di impormi. C’è, lo so, chi pensa: “Adesso si sentiva troppo importante per continuare come prima”. C’è chi pensa: “Ha dato l’addio al pubblico come ha fatto Grock diecine di volte: una trovata per far parlare di sé. Poi ricomincerà come prima”. C’è chi pensa: “Ha litigato con i suoi ragazzi del sestetto e non ha voglia di trovarne altri”. E c’è anche chi pensa: “Se ha smesso di mungere questa mucca, è segno che ne ha già sottomano un’altra più grassa”. Sbagliano tutti, lasciatemelo dire. Sapete la storiella di quel napoletano? Un giovane Napoletano robusto se ne sta sdraiato al sole su un muretto di Via Caracciolo, là dove il sole batte così caldo e si vede il mare così azzurro. Passa un settentrionale, si ferma, gli dice: “Che fai?”. “Eh, sto qua”, risponde il giovane. “Ma perché non lavori? Con l’energia che ti si vede in faccia potresti guadagnare qualcosa, farti una barca”. “E poi?”. “Poi pescare, guadagnare ancora, comprare altre barche, diventare qualcuno”. “E poi?”. “E poi sposarti, fare dei figli, comprarti un bell’appartamento, dirigere la tua Con i fratelli Ottavio ed Olga 19 flottiglia di barche”. “E poi?”. “E poi farti un conto in banca”. “E poi?”. “Riposarti”. “Signuri’, e io che sto facendo?”, ribatte il giovane chiudendo di nuovo gli occhi. Io dunque sarò napoletano per niente? Chi si abbarbica al guadagno è finito, non pensa più alla vita né alla famiglia né ad altro che al denaro. E’ triste. Io voglio essere triste a settant’anni, ma allegro adesso, ecco tutto. Mi riempie di gioia pensare che potrò fare Natale e Pasqua a casa come mi é sempre stato impossibile fino ad oggi; discutere di un libro appena letto con mia moglie; oppure, di un’incisione con mio figlio, Pino, che studia elettronica. Si deve proprio aspettare l’infarto che ci tolga di mezzo, che ci faccia stramazzare al posto che abbiamo conquistato? Non è stata una decisione improvvisa. Ci pensavo fin da ragazzo. Cominciavo appena a cantare e a suonare in Africa Orientale e già mi dicevo: “Un giorno, potendo, mi ritirerò a vita privata”. Me lo ripetevo a Napoli, quando avevo messo insieme il primo quartetto e tiravo avanti a fatica. Poi non ci pensai più perché capivo di avere infilato una strada diritta. Le mie canzoni e i miei arrangiamenti significavano qualche cosa, dieci minuti di svago sin Da ragazzo 20 cero per molta gente.

Non è facile affermarsi in Italia dove tutti sono o si credono cantanti. “Se ci riesco”, pensavo, “vuol dire che almeno in questo pazzo mondo della musica leggera qualche cosa da dire di mio ce l’ho”. Quel che ho fatto l’ho fatto sempre con fiducia e con sincerità, da professionista che “crede” nel proprio mestiere. Poi vennero le grosse soddisfazioni: i successi dei dischi, alla televisione, le tournées fortunate. Questo è il momento dell’addio e di ringraziare tutti. Ho visto il mondo intero. L’anno scorso tornando dall’Avana pensai che era ora di smetterla. Ero a buon punto ormai con la mia nuova casa discografica, avevo la mia sala d’incisione e di registrazione. Avevo il mio “chiodo” in testa: diventare l’alfiere della musica riprodotta stereofonica in Italia. Incominciai e rifiutare nuovi impegni: ho il cassetto pieno di inviti in America, in Grecia, in Africa, bisogna sentire come parlano dell’Italia e delle nostre canzoni che conoscono meglio di noi. C’erano impegni precedenti da esaurire. Una foto molto cara a Renato con la dedica di Louis Armstrong 21 Li ho esauriti domenica sera. Il mio sestetto è divenuto un quintetto, guidato da Gegè di Giacomo: il batterista con gli occhiali, l’uomo del “canta Napoli”, che mi è sempre stato accanto da quella sera del 49’ in cui mi fu presentato nella sala dello Shaker di Napoli. Gli altri “ragazzi” erano con me da tre anni: Piero Giorgetti, il cantante, Raf Montrasio , il chitarrista, Gianni Tozzi, Toni Grottola. Ricordo come li trovai: Gianni Tozzi in un night di Sanremo; Toni Grottola andai a Napoli apposta per sentirlo; Raf Montrasio alla “Porta d’oro” di Milano dove ero entrato per caso; Piero Giorgetti lo “scoprii” sentendo la sua voce alla radio, e subito gli telefonai a Firenze proponendogli di raggiungermi.

Ora, tutti insieme, incideranno per la mia marca di dischi. Ed io stesso, se non mi farò mai più vedere, non per questo metterò un turacciolo alla mia fantasia”. Carosone anche quella volta ebbe ragione. Si appartò per ben 15 anni. Non fu solo. Il pianoforte, suo fedele ed inseparabile compagno, fu tutta la sua ragione di essere. Bach, Clementi, Chopin, Beethoven, furono la luce che illuminò questo periodo di “clausura”. “La sosta fu importante”, dice Carosone, “infatti in 15 anni ebbi modo di mettere a fuoco la mia vita e di uomo e di musicista e rimisi ordine nelle mani fino a riprendere pieno possesso della tastiera del pianoforte”. Una telefonata, allo scadere del quindicesimo anno di silenzio, ruppe l’incanto! Sergio Bernardini, geniale e persuasivo, organizzò uno Show televisivo dal vivo alla “Bussola” di Focette. Era il 9 Agosto 1975. La reazione della stampa di tutta Italia fu unanime. Trionfo! Carosone quella sera era vestito sempre Caraceni con cravatta di Pucci, col suo stesso sorriso di 15 anni prima, le stesse canzoni, le stesse mani, la stessa umiltà davanti al suo pubblico, lo stesso pianoforte. Solo una cosa era cambiata: la consapevolezza del pubblico, di aver ritrovato anche se per una sola sera un amico. Renato Carosone dice: “io sono persuaso, dopo quella rentrè, che ogni artista deve restare fedele alla sua causa, servendola fino alla fine, senza lasciarsi tentare dalla mania, purtroppo diffusa ai nostri giorni, di ‘aggiornarsi’”. Lo spettacolo pietoso dei cinquantenni con criniere lunghe oltre il colletto e le cinture strette sotto il ventre è stata una testimonianza di questo “aggiornamento” grazie a Dio ora superato. Ognuno al proprio posto e voglio rifarmi ad un grande Maestro figlio della mia stessa terra, che nonostante i “Gobbi” e “teatro uomo”, gli “spazi liberi” ed infine tutti gli ultimi prodotti del “cabaret” e del “teatro moderno no- 22 strano”, ha continuato imperterrito a sostenere il suo teatro con la medesima tecnica e scuola, fedele e coerente con se stesso: “Eduardo De Filippo”. E Renato Carosone ricorda sempre quello che un giorno gli disse Eduardo: “devi fare come me! Devi continuare così, perfezionando fino allo spasimo ciò che il tuo pubblico ha voluto, apprezzato e applaudito”.

Con il clamoroso rientro nel 1975 con lo “special alla bussola” di Viareggio, Renato ha la tentazione di rientrare “la stessa tentazione che prova chi ha smesso di fumare” dice “e riassapora per una volta il gusto di una sigaretta”. La canzone non è soltanto arte e poesia, è anche industria, e Renato non vuole sentirsi schiacciato o meglio condizionato da esigenze e interessi economici che roteano intorno ad essa. Quindi resiste e resta una discreta presenza. Passano ancora 7 anni prima che si convinca a rientrare in sala di registrazione; a far cadere ogni pregiudizio è la collaborazione strettamente amichevole che intavola con il suo produttore e discografico Sandrino Aquilani. Nasce così dopo 22 anni di silenzio discografico il nuovissimo e fiammante LP “Renato Carosone 82”. L’accoglienza è davvero esaltante ovunque, e sul filo dell’entusiasmo, rientra in sala con il “fido” Aquilani e porta a termine la registrazione di tutte le sue canzoni di successo, con la tecnica moderna di incisione, che nel frattempo si è evoluta e perfezionata. “Era un forte desiderio poter realizzare nuovamente il mio repertorio, che risentiva qualitativamente delle antiquate matrici di cera”. Questo corona un sogno segreto di Renato, che riesce ancora una volta a trasformare la sua musica in gioia di vivere.

La lettura della Lettera di un pianista, va collocata in una scena dove si accavallano i ricordi di Carosone tra infanzia e successi, tra sconfitte e rimpianti.

Musica, madre mia! Quando mi mettesti al mondo, il mio primo vagito fu un LA, ti ricordi? Un LA naturale. Le altre note me le hai insegnate dopo. E le ho imparate con fatica con rabbia; camminando a piccoli passi su quel sentiero irto di difficoltà, quel sentiero di ebano e avorio. Un passo bianco e un passo nero, uno bianco e uno nero. A tempo; con ritmo preciso, preciso. E li ho incontrati tutti su quel sentiero, sai? Pozzoli, Hanon, Clementi, Czerny, Chopin, Bach, Beethoven, Liszt. Madre mia, ti degnano appena appena di uno sguardo. Che severità. Più alla mano gli altri. Oggi questo sentiero è splendido, luminoso. Ci passeggio, ci respiro, ci canto, ci suono, e lo percorro su e giù con sicurezza, con gioia immensa. E non guardo più nemmeno dove metto il piede, tanto lo conosco. Si, ora lo conosco, è mio! ma che fatica madre mia, sorella mia, amante mia! Tu sei la lingua più bella del mondo, la lingua che non si parla, eppure comprensibile a tutti, proprio tutti. E’ la lingua che parlano gli angeli in Paradiso, perciò ti amo. E ti prego: quando sarà giunto il momento, dì a quella signora di non cercarmi. L’appuntamento è lì, su quel sentiero bianco e nero di ebano e avorio. Io sarò lì puntuale e sereno. E ritornerò nel tuo grembo così come sono venuto. Te ne accorgerai, perché sentirai la mia ultima nota, uguale e identica alla prima che mi insegnasti, ti ricordi? Era un “LA”, un “LA” naturale!